mercoledì 4 gennaio 2012

I miei Grandi Maestri: Danilo Dolci "Cos'è Pace"

Danilo Dolci:
Avere grandi Maestri ci aiuta a crescere migliori... non necessita che io aggiunga altre parole! Quelle che seguono sono fantastiche: dicono tutto!!! 

Cos’è Pace
Prendo un vocabolario. Alla parola “pace” trovo: “stato d’animo di serenità, di perfetta tranquillità non turbata da passioni o ansie; sinonimo di quiete; assenza di fastidio, di preoccupazioni materiali; di dolore fisico; tregua; condizione di uno Stato che non si trova in guerra con altri. Riposare in pace = essere morto”.
Proprio questa è la pace necessaria al mondo, a ciascuno? E se questa non è, cosa significa oggi, cosa deve significare per ognuno? Pur sapendo come la risposta a questo interrogativo rischia di risultare generica e velleitaria finché non si concreta situazione per situazione, non è indispensabile per ciascuno cercare di avviarla? Non è meglio tentare indicazioni positive, anche se barluminari, che rassegnarsi a pensare la pace in termini negativi, come mancanza di guerra?

Voler sapere, voler capire.
Meno si comprende, meno si è in grado di risolvere i problemi e le difficoltà che incontriamo. Per lo più la nostra inabilità a comprendere ci porta a vedere solo quanto ci tocca più da vicino o, quando ricerchiamo, a distinguere  solo alcuni particolari. Non profondamente coscienti della necessità di conoscere, non sperimentati, non allenati, ci si stanca    presto,   ci   si  disperde,   non  si   sa   scomporre analiticamente e poi riconnettere le complesse simultaneità di ogni organismo vivo.
È necessario per ciascuno acuire la propria attenzione alla scoperta, apprendere a rilevare sistematicamente, attraverso analisi e autoanalisi, i dati essenziali delle situazioni e dei problemi in cui si esiste; apprendere come si possa riuscire a vincere ignoranze, complessi, superstizioni di ogni tipo: sapendo come le superstizioni, surrogati della verità, man mano che si diffondono vengono come ufficializzate e nobilitate dalle stesse loro dimensioni.
  Quanto più si hanno esatti i dati del problema da risolvere e completo il quadro delle difficoltà, tanto meglio è possibile avvicinarsi alla soluzione; quanto meno sono sufficienti e precisi i dati di cui si dispone, tanto più si tentano avventate soluzioni producendo disfunzioni, fallimenti.

Avere il coraggio di chiarire il fronte delle difficoltà da vincere.
In Italia, dove tanto sono stati decantati il diritto, il cristianesimo e la democrazia, era riuscito ad essere lungamente Ministro uno sfruttatore della mafia sistematicamente sfruttato dalla stessa; ed è riuscito ad essere nominato Sottosegretario nel governo nazionale, cioè Viceministro, un individuo notoriamente capomafia della sua zona.
I governi dei ventidue paesi del continente sudamericano sono tanto democratici che in ciascuno la polizia pratica sistematicamente la tortura; due sono eletti per gran parte secondo il sistema clientelare – mafioso; gli altri venti praticamente non si curano nemmeno di salvare le apparenze. Pensiamo proprio, se vogliamo essere franchi, che tutto questo, oltre alla guerra nel Vietnam, sia oggi sostenuto dal Governo degli Stati Uniti per amore degli ideali democratici?
Possiamo continuare oggi a pensare democratico, campione della democrazia, un mondo di ghetti e discriminazioni? un mondo – certo, non tutti, non gli attivi dissenzienti a cui va tutta la nostra ammirazione – che cerca di soffocare la volontà di vita in nazioni intere, interi continenti? un mondo – certo, per tanto altro l’amiamo – che non garantisce di fatto a ciascuno la possibilità di lavorare, di sapere, di esprimersi?
  Non è vero che tutti vogliamo la pace. Bisogna avere il chiaro coraggio di individuare chi organizza e chi alimenta la preparazione delle guerre per sopraffare coloro che vuole sfruttare; di scoprire dove passa il fronte fra il parassitismo di ogni genere e chi è impedito nel suo sviluppo da emorragie di ogni genere, tra la violenza di chi difende il proprio parassitismo e la coraggiosa energia di chi difende la vita; veder chiaro quando e dove questo fronte passa attraverso noi stessi.
E non possiamo confondere l’impegno per realizzare la pace con la preoccupazione di mantenersi equidistanti da tutti.


Essere rivoluzionari.
Ogni comportamento – individuale, di gruppo, di massa – che tende sostanzialmente a mantener la situazione come è, o ad ammettere il cambiamento se lentissimo, di fatto non è impegno di pace.
I prepotenti, quando non possono sopraffare gli altri prepotenti per sostituirsi a questi, cercano di accordarsi tra loro: naturalmente in danno ai deboli. Non è questa la pace, anche quando non spara la lupara o il cannone.
Anche le vaste zone dell’opinione pubblica conservatrice, che ricordiamo aver visto coi nostri occhi benedire le bandiere naziste e fasciste di fronte alle parate irte di pugnali, si muovono più avvedute, prendendo atto dell’imprescindibile rapporto tra pace e sviluppo: ma ancora sostanzialmente blandendo i forti, i ricchi, “i nobili” e commiserando i deboli, i poveri, i paria. Non è questa la pace che ci è necessaria: è un ulteriore compromesso equivoco.
Occorre l’impegno continuativo, strategico, per la costituzione del nuovo mondo e la demolizione del superato, attenti a muovere le proprie forze in modo da suscitarne ovunque nuove: occorre una rivoluzione nonviolenta impegnata a eliminare lo sfruttamento, l’assassinio, l’investimento di energie in strumenti di assassinio e promuovere reazioni a catena di nuova costruzione.
È più facile dubitare dell’efficacia della rivoluzione nonviolenta finché questa non avrà storicamente dimostrato di saper cambiare anche le strutture.
L’azione nonviolenta è rivoluzionaria anche in quanto, con la sua profonda capacità di animare le coscienze, mette in moto altre forze pure diverse nei metodi. Ciascuno che aspira al nuovo fa la rivoluzione che sa.
Molte volte la situazione a Partinico era così grave, il terrore della mafia così diffuso, che sembrava di lavorare sopra una frana. Se in queste condizioni qualcuno di noi doveva reagire – come in galera quando altro non è possibile – decidendo per esempio di digiunare, per fare in modo che i contadini uscissero dal loro isolamento, puntando a illuminare una realtà inaccettabile e a non indicare precise alternative, diversi si dicevano non d’accordo col digiuno; ma via via che passavano i giorni si caricava la coscienza di molti, si accendevano le discussioni, si moltiplicavano le iniziative (degli embrionali sindacati, dei comuni, dei partiti o di individui e gruppi – anche polemiche o addirittura concorrenziali): e molti ora, quando guardano il nuovo lago di Partitico con le sue anatre, non possono non pensare a come si è riusciti a muovere dalle prime pietre tutta la massa della diga.
  Spesso ammiriamo forze rivoluzionarie violente non perché siano le uniche possibili o le più adatte nelle circostanze in cui operano, ma perché dove agiscono sono le uniche esistenti, le uniche hanno il coraggio di esistere.

Chi pensa che la guerra sia la forma suprema di lotta, il modo di risolvere i contrasti, ha una visione ancora molto limitata dell’uomo e dell’umanità. Chi ha effettiva esperienza rivoluzionaria sa come per riuscire a cambiare una situazione deve fare appello, esplicitamente o meno, ad un livello morale, oltre che materiale, superiore a quello imperante; sa come l’appellarsi a principi più esatti, ad una morale superiore, divenga elemento di forza effettiva: e in questo modo la sua azione è rivoluzionaria anche in quanto contribuisce a creare nuova capacità, nuova cultura, nuovi istinti: nuova natura dell’uomo.
Personalmente, sono persuaso che la pace si identifica con l’azione rivoluzionaria nonviolenta. Devo riconoscere che la lotta contro una situazione insana può condurre più vicino alla sanità – dunque alla pace – pur con altri mezzi: ma non posso non tener presente come la violenza, anche se diretta a fini generosi, ha ancora in sé il seme della morte.

Saper sperimentare.
Con un gruppo molto vario di giovani organizziamo una marcia da Milano a Roma per premere affinché il Governo italiano smetta la sua politica di clientela, e per manifestare la nostra opposizione alla guerra nel Vietnam, in particolare al comportamento del Governo americano. La base d’intesa è molto larga, i diecimila giovani che partono da Milano si succedono ad altri per settecento chilometri, la marcia divine un intenso seminario in cui si medita tra i partecipanti e con le popolazioni che si attraversano. Poiché alcuni gruppetti di ragazzi a tratti scandiscono “Johnson torna alle tue vacche”, molti contadini dei borghi che attraversiamo, soprattutto in Emilia, non sembrano affatto persuasi; sono come offesi: “le vacche non sono forse importanti?”, mormorano. I ragazzi cominciano a comprendere chilometro dopo chilometro la distinzione tra sfogo rabbioso e capacità di penetrare nelle popolazioni affinché ciascuno si muova ad assumere una posizione cosciente ed esplicita di fronte alla guerra. Quando arriveremo a Roma e si farà sentire il responsabile peso di quarantamila giovani dalla piazza del Parlamento fino all’Ambasciata americana, gli slogan che si sono sperimentati più penetranti ed efficaci sono “Pace sì, guerra no” e “Vietnam libero”.
 Per la stessa marcia è partita una colonna da Napoli verso Roma in cui moltissimi erano gli scugnizzi. Alcuni ragazzini ci si avvicinano, parliamo, via via passano i chilometri diventiamo amici, viene la sera, arriviamo nella piazza di un paese gremita di persone. Invitiamo alcuni giovani che ci sono apparsi più pensosi, seri, a parlare alla popolazione raccolta dal palco illuminato. A un ragazzino sveglio che mi aveva dato la mano negli ultimi cinque chilometri, domando: “Vuoi parlare anche tu?”. I suoi occhi si illuminano. Quando dovrebbe parlare, il funzionario d’un partito gli si avvicina preoccupato e gli domanda: “Ma…cosa dovresti dire?”. Gli occhi del piccolo sono in pena. Prego il funzionario di lasciargli dire quel che vuole. Il piccolo è di fronte al microfono, per la prima volta di fronte a migliaia di persone che non volevano la guerra, volevano la  pace, si era sentito “molto felicissimo” ed era venuto anche lui coi suoi compagni. L’applauso nella piazza era quasi un boato, ciascuno si sentiva espresso nel modo più semplice, e quel ragazzino non credo dimenticherà facilmente nella sua vita quanto ha detto quella sera di fronte a tutti.
Ciascuno che non si senta compreso e sostanzialmente accettato, si chiude rifiuta gli altri: è vero per individui come per popoli interi.
Il comportamento delle persone in gran parte dipende dal comportamento di chi hanno vicino. Quanto varia? Quando? Quale è la gamma dei casi? Per comprendere occorre osservare, sperimentare, per arrivare a cogliere fenomeni generali, per sapere prevedere le possibili reazioni ai diversi tipi di azione.
Gli ultimi secoli ci hanno provato per alcuni ambiti il valore del metodo, della sperimentazione. Occorre sperimentare in altre direzioni: solo dopo anni di ricerca, di tentativi, di errori, di parziali successi, si sviluppano in noi quelle facoltà interpretative e creative in cui sta il meglio di noi. Occorre avere occasione di conoscenza e verifica al di fuori degli ambienti e dei canali di informazione più consueti, osservando dai diversi punti di vista, raffrontando diverse qualità di vita.
Come si può effettivamente vincere le resistenze, è da scoprire sperimentalmente situazione per situazione. Finché uno non si forma e accresce una sua diretta esperienza, rimane intimamente disperato, brancolante – anche se librescamente saccente – tra l’esperienza degli altri.
E come l’individuo può apprendere, così dieci persone, cento, mille, decine di migliaia, milioni e milioni, miliardi di persone che non sanno ancora cercare, operare, vivere insieme, combattere in modo nuovo, possono apprenderlo.

Non vendersi.
I prepotenti, gli sfruttatori, i veri fuorilegge, difficilmente possono resistere nelle loro posizioni se non sono sostenuti e difesi da chi si vende loro.
Non occorre fatica a spiegare per quanti versi sia male vendersi, prostituirsi; come il lavoro mercenario, il vivere in modo che non ci persuade ci limita, ci disfa. Più fatica occorre a ciascuno per conoscere esattamente l’oggetto della eventuale scelta e la natura delle proprie motivazioni. Penso soprattutto agli intellettuali che possiedono doti, prospettive, senso critico: soprattutto a quelli che in privato dicono corna del loro “principale”. Persone di capacità e rettitudine professionale collaborano a giornali che, dietro la facciata, è facile scoprire falsi, assassini. Il processo spesso è quanto mai primordiale: si giudica il valore di un lavoro, di una collaborazione, dal prezzo che se ne ricava: sale l’opinione morale di sé nella misura della propria quotazione. O talvolta facile alibi è il proporsi di condizionare dall’interno sistemi negativi, di farsi cavalli di Troia. Molto spesso l’equivoco è facilitato dai paraocchi della specializzazione tecnica, dal mito della scienza pura. Anche con passi di questo tipo si è arrivati a costruire e a far funzionare Buchenwald, Auschwitz, Mauthausen.
Scegliere secondo necessità e coscienza – certo, non è facile –, rifiutarsi ad ogni professione o occasione che ci impegni in sfruttamenti e assassini di ogni genere, è un contributo fondamentale per rompere il sistema delle clientele, dal livello di strada a quello internazionale.

Saper mettere fuori legge i veri fuorilegge.
Per far leva occorre trovare un punto d’appoggio. Questo elementare principio di ogni strategia pone al rivoluzionario nonviolento una particolare attenzione per la scelta dei suoi fulcri: non farà leva sul marcio; non farà leva con astuzie selvagge o menzogne, ma con quanto meglio possa esprimere l’interesse di tutti.
Poter far leva sulle leggi morali e giuridiche più elevate, poter far leva anche su una legge minimamente democratica, ha un vantaggio: essendo le leggi, anche se non rappresentano in genere i punti più avanzati della cultura e della moralità, i punti convenzionalmente dichiarati comuni, chi risulta traditore del contratto sociale, risulta di fatto il vero fuorilegge. Le popolazioni, per saper più nitidamente come agire, devono sapere quali sono i veri fuorilegge.
Perché torture, sfruttamenti, avvelenamenti, brogli elettorali, gravi sprechi, in genere o avvengono in segreto o, chi li pratica, anche se ha il potere in mano, preferisce non risultino per quello che sono? Perché chi li pratica teme il peso, la forza del giudizio negativo degli altri.
L’opinione pubblica può distinguere, soprattutto se puntualmente stimolata, tra il padre di famiglia che avendo i piccoli alla fame va a cogliere un paniere di pomodori in un campo di cui non è proprietario, tra il negro che umiliato si ubriaca o si arruola volontario per sparare addosso a poveracci come lui –, e chi ha le maggiori responsabilità di situazioni inaccettabili; ha sufficiente intuito per orientarsi anche quando le sentenze giuridiche cercano di sovvertire il vero giudizio: ma ha difficoltà a raccogliere i fatti in fenomeni, a inquadrarli nell’insieme.
Una polizia tortura? Occorre documentare, denunciare caso per caso, in modo sempre più vasto e sistematico: in questo modo, pur tra facilmente immaginabili difficoltà, la polizia ed il suo comportamento vengono individuati come fuorilegge.
Si pratica lo sfruttamento, si lascia insicuro il lavoro in scala tale che le masse meno riflessive accettano tutto questo quasi come naturale? Occorre far crescere precise documentazioni e sistematiche denunce fin che divengano schiaccianti.
Brogli elettorali di ogni tipo impediscono che si esprimano veracemente le necessità di una popolazione? Occorre documentare caso per caso, paese per paese, zona per zona, in modo sistematicamente crescente, non dando per scontato che già si sa, aprendo e facendo aprire gli occhi, macchine fotografiche e quanto altro possa servire.
Avvengono sprechi di ogni genere? Occorre apprendere a far leva in modo circostanziato, dal livello dell’interesse locale a quello generale, documentando come sia balordo sprecare enormi energie, ricchezze di ogni genere, e non valorizzarne altrettante potenziali.
E così dove o quando manca libertà di espressione, di informazione, di riunione e altre essenziali. In ogni zona occorre ricercare quali sono i possibili fulcri e quali possono meglio valere. Il portare avanti campagne di questo tipo rinforza in ogni senso chi le muove.
Ovviamente, passo essenziale è mettersi in condizione di far le nuove leggi e le strutture nuove necessarie.

Saper muovere nuovi fronti.
Se le armi sono nate nelle mani dei nostri antenati che stentavano a procurarsi il cibo tra le belve soverchianti, come strumenti utili alla propria sopravvivenza, ora non ha alcun senso che le armi ci crescano nelle mani: sono anacronismi assurdi.
Esistono i mostri: hanno ben più che cinquanta passi di lunghezza, sputano fuoco a ben più di trenta passi, hanno ben più che due fauci; inceneriscono ben più che una casa col loro sputo, paralizzano di terrore ben più che una piazza di folla. Ben nutriti anche dalla carne e dal sangue delle loro vittime, hanno nervi magnetici e tendini d’acciaio, un fiato irrespirabile che annebbia la vista del sole, escrementi che corrompono fiumi e laghi e mari, sanno articolarsi terrorizzando per migliaia di chilometri, sanno vomitare fuoco contemporaneamente su centinaia e centinaia di chilometri, vetrificando in un attimo milioni di persone, città costruite dall’opera di milioni di persone in migliaia di anni: l’una fauce del mostro sa anche avventarsi contro l’altra sua, l’artiglio contro il suo artiglio. Le più orride fantasie del passato, dall’Apocalisse a tutti i mostri inventati dagli artisti o dal commercio dell’orrore per vincere la noia dei troppo sazi, ci fanno sorridere per la loro ingenuità al confronto.
Non solo dobbiamo sgonfiare questi mostri non alimentandoli e non lasciandoli nutrirsi di noi: dobbiamo sapere chiaramente in ogni nostra fibra che questi mostri noi li abbiamo costruiti, e noi li possiamo distruggere creando altro.

È più la gente che ha interesse a operare cambiamenti verso un mondo di tutti, o più la gente che pensa suo interesse mantenere le situazioni come sono?
Nella misura in cui si riesce a interpretare e ad esprimere le profonde esigenze di migliaia, di milioni, di centinaia di milioni, di miliardi di uomini, e li si aiuta a prendere coscienza di sé e dei propri problemi, ad avviare iniziative alternative di ogni tipo, dal minimo al più alto livello, a premere con efficacia, in quella misura si riesce a mettere in moto una forza concretamente rivoluzionaria.
Persone o gruppi nuovi che rifiutano il pensiero di seconda mano, la vita di seconda mano, impegnati nella valorizzazione della vita, già esistono: è urgente riconoscerli, verificare reciprocamente le esperienze, tendere a creare nuovi fronti organici.

Saper pianificare organicamente.
L’opposto dello scontrarsi – incontrarsi del caos, del lasciare tutto accadere a caso, della furbizia delle lotterie, è pianificare; l’opposto di essere mostri, è svilupparsi organicamente. All’umanità necessita raggiungere la sua unità organica: la pace non viene a caso, è inventare il futuro.
Se è più facile che una pianificazione risulti efficace disponendo del potere, non si devono sottovalutare le possibilità della pianificazione d’opposizione. Una delle insufficienze di certi movimenti rivoluzionari è la debolezza del loro fronte costruttivo rispetto alla loro capacità di coscientizzare, o al peso che riescono a raggiungere nella protesta, nella pressione. La costruzione di nuovi gruppi organici e la demolizione dei vecchi sistemi devono procedere coordinate, potenziandosi a vicenda: il crescere di una alternativa persuasiva incoraggia la denuncia e l’attacco ai vecchi gruppi; d’altra parte la perdita di autorità delle vecchie strutture facilita lo sviluppo delle nuove.
Riprendo in sintesi il caso della diga costruita sul fiume Jato. Sulla popolazione, come disperata, dominava la mafia, forte dei suoi rapporti politici: non c’erano prospettive di cambiamento. Si cerca coi più attenti quali possono essere le soluzioni. Si verifica, dopo lunga incertezza, la necessità – possibilità di costruire una grande diga per irrigare la zona. Azione educatrice in profondità affinché la popolazione comprenda esattamente cosa è una diga. Pressione prima di pochi, poi sempre più vasta e ripetuta finché si inizia la diga. Sviluppo tra gli operai del grande cantiere, di un sindacato: le assunzioni non avvengono più attraverso la mafia, che perde prestigio. I mafiosi locali sono pubblicamente denunciati, viene denunciato il loro rapporto coi due potenti politici della zona: i due politici vengono estromessi dal Governo nazionale. I lavori di costruzione vengono accelerati. Nascono i primi, anche se rudimentali, centri per la promozione di un consorzio democratico d’irrigazione tra cinquemila famiglie, in modo che si abbia acqua democratica e non di mafia. Nascono cooperative. Nella vicina valle del Belice intanto sono iniziate pressioni per la costruzione di una nuova, più grande diga. Nella Sicilia occidentali le popolazioni ora si muovono per ottenere non una o due dighe ma dodici grandi dighe. Cresce intanto un centro per la formazione di quadri esperti in sviluppo pianificato con la partecipazione della popolazione.
Cosa ha significato esattamente per noi tendere con la massima partecipazione popolare ad inventare il piano di sviluppo per la zona?
Incontri individuali, scambi di notizie e opinioni con piccoli gruppi informali;
Lavoro – discussione di gruppo;
Rapporti organici con gruppi locali che vanno crescendo;
Promozione di autoanalisi popolare su problemi di fondo da confrontarsi con monografie tecniche sugli stessi problemi;
Sviluppo elicoidale di conversazioni su temi d’interesse comune: in modo che si scopra, si inventi sulla base dell’esperienza di ciascuno;
Introduzione analitica di un esperto e successivo dibattito;
Promozione di documentazione (fotografia, diaristica, statistica, verbali ecc.);
Promozione di sperimentazione e invenzione (campi di prova, cooperazione nuova, iniziative varie di educazione aperta);
Promozione di scoperta (viaggi, lettura, incontri nuovi);
Promozione – pubblicazione di autoanalisi e confronto con analoghe iniziative avviate altrove;
Rapporti intercomunali e interzonali con esponenti di gruppi locali;
Proposte di ipotesi (anche con letture, disegni, plastici, film) e successiva discussione;
Promozione di analisi e sperimentazione nei gruppi omogenei qualificati (educatori, medici, urbanisti, tecnici vari) con la partecipazione di specialisti – consulenti;
Convegni in cui propongono alla discussione più aperta i risultati maturati dai gruppi già approfonditi;
Pressioni – discussione a livello locale, regionale, nazionale;
Contrapposizione dialettica tra fatti nuovi (morali, organizzativi, economici, formali) in cui ciascuno possa contribuire allo sviluppo, e vecchia esperienza, modelli fissi.
 
L’assunzione di responsabilità di un popolo si matura attraverso assunzioni di responsabilità individuali e di gruppo. La noncollaborazione di un popolo a quanto viene considerato insano, superato, si concreta attraverso la volontà di noncollaborazione di individui e di gruppi. Nuovi rapporti nell’umanità possono sì realizzarsi in quanto si costruiscono nuove visioni d’insieme, nuove qualità di rapporto, nuovi centri mondiali, nuove strutture nazionali ed internazionali, nuovi metodi di rapporto, ma nella misura in cui a livello individuale, di gruppi, di popoli, tutto questo viene maturato: il processo è interdipendente.
È necessario passare da un mondo autoritario e frammentato ad un mondo pluricentrico e coordinato. Le difficoltà dei giovani stanno soprattutto tra l’inadattabilità, l’inaccettabilità del vecchio mondo e, appunto, la difficoltà ad inventare il nuovo.
Gli uomini oggi stanno diventando esperti di macchine, ma hanno elementari difficoltà a concepire gli organismi.

Pace è un modo diverso di esistere.
Mi prende un dubbio. Controllo il senso della parola “pace” su altri vocabolari, non italiani. Nel Dizionario dell’Accademia francese, paix : “stato di calma, di riposo, di silenzio, assenza di chiasso o di faccende”. Nel Dizionario della Reale Accademia Spagnola, paz : “virtù che pone nell’animo tranquillità e sussiego, è uno dei frutti dello Spirito santo”. Nell’Oxford English Dictionary, peace : “libertà da – o cessazione di – guerra o ostilità; la condizione di una nazione o comunità in cui non c’è guerra con altri”. Nel monumentale vocabolario tedesco dei Grimm, Friede : “ozio, tranquillità, tutela”. Non ho altri vocabolari per verificare oltre, ma ove si osservi attentamente, d’altronde, si ha conferma della diffusa confusione e insufficienza al proposito, si ha conferma di come occorre chiarire l’intimo rapporto tra pace, consapevolezza, coraggio, rivoluzione nonviolenta, non vendersi, sperimentare, nuova strategia, pianificazione organica.
È necessario riuscire a rendere ogni giorno meglio evidente come un nuovo lavoro capillare di costruzione e pressione, prima di gruppi – pilota e poi di moltitudini di nuovi gruppi volontari, può riuscire a trasformare effettivamente le vecchie strutture sociali e politiche. L’evidenza di nuovi fatti può aiutare a chiarire. Certo, è un enorme lavoro, un’enorme fatica si deve fare, ma è forse possibile pensare che il mondo nuovo che ci necessita si possa creare da sé? Forse non costa ancor più fatica – in quanto per troppi aspetti antieconomico – il mondo così come è?

Sì, pace vuol dire anche decantare rabbie e rancori, sapere disintorbidarsi per trovare il modo – ogni volta difficile – di eliminare il male senza eliminare il malato o nuocergli, capacità di sacrificio personale, sapere maturare le qualità essenziali e, quando è buio, anche se il buio dura terribilmente, saper vedere oltre. Ma tutto questo, se non è concepito nel quadro più vasto, è ancora un ingenuo tentativo di evasione: uno dei tanti modi di suicidarsi.
La pace che amiamo e dobbiamo realizzare non è dunque tranquillità, quiete, assenza di sensibilità, evitare i conflitti necessari, assenza di impegno, paura del nuovo, ma capacità di rinnovarsi, costruire, lottare e vincere in modo nuovo: è salute, pienezza di vita (anche se nell’impegno ci si lascia la pelle), modo diverso di esistere. Dice il mio piccolo Amico: “È il contrario della guerra”.

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